mercoledì 27 luglio 2011

"IN THE MARKET": DAL PRODUTTORE AL CONSUMATORE!

Recensione IN THE MARKET (in uscita dal 5 Agosto al Cinema)

Un B-movie on the road farcito di riferimenti cinematografici e di personaggi bizzarri, un piatto unico che lascia in bocca tanti sapori forti, che non riesce a nascondere l'inesperienza del suo creatore ma che mette in evidenza un talento che nel prossimo futuro potrebbe regalare ai buongustai del cinema di genere qualche portata da veri gourmet.


Cinema e territorio, ovvero film prodotti sul nostro territorio che arrivano direttamente dal produttore al consumatore finale, senza inutili e costosissimi passaggi intermedi. Un modo per abbattere i costi e per combattere la crisi economica, in primis quella dei consumi e del lavoro che di questi tempi sta dilaniando tutti i settori. Arriva dall'Umbria ma non si tratta di un tartufo bensì di un lungometraggio, un piccolo horror intitolato In the market che inizia come un road-movie e finisce per trasformarsi in un mix tra lo spaghetti western e il moderno torture, un piccolo prodotto nostrano che riporta in auge il genere cannibalistico dopo anni di latitanza.



Per David, Sarah e Nicole l'anno scolastico si è appena concluso e in una torrida giornata di luglio si mettono in macchina senza avere una meta prefissata e con tanta voglia di fuggire dalla routine. Unica tappa obbligata l'attesissimo concerto della loro rock-band preferita, i GTO, poi il viaggio proseguirà alla volta di nuove avventure e di esperienze elettrizzanti. Totalmente rapiti dallo spirito goliardico della vacanza, i tre amici incappano però in una brutta sorpresa. Mentre sono fermi in un'apparentemente tranquilla stazione di servizio a fare benzina vengono rapinati da una coppia di delinquenti mascherati. Rimasti senza telefono, senza soldi e senza documenti i tre si rimettono in viaggio alla ricerca di un telefono da cui chiamare la polizia per denunciare il furto. Dopo tanta sfortuna finalmente il primo sospiro di sollievo quando all'orizzonte appare l'insegna di un market. Una volta entrati però i tre amici perdono di vista il loro obiettivo e anzichè chiamare aiuto optano per una soluzione alternativa. Perchè rovinarsi la vacanza e mettersi in cerca di un hotel se si ha a disposizione un intero supermercato in cui si può mangiare, dormire e usufruire illimitatamente di tutto quel ben di Dio? In pochi secondi la decisione è presa: ci si nasconde nel bagno, si aspetta che siano usciti tutti per poi folleggiare e sgattaiolare fuori l'indomani mattina senza dare troppo nell'occhio. I tre però non hanno fatto i conti con il fatidico imprevisto, nello specifico con il gestore del market che è sì un emporio in cui si vende di tutto ma che è rinomato nella zona per la carne venduta. A buon mercato e sempre freschissima...


Ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto in una remota località del New Mexico nella metà degli anni '80 e ad una puntata della serie TV cult Dawson's Creek, In the market è il sogno che si realizza per il giovane Lorenzo Lombardi (classe 1986), uno studente del DAMS di RomaTre che, con una grande passione per il cinema di genere, a soli vent'anni decide di autoprodurre e autodistribuire un horror tutto suo diretto al grande schermo.
Al grido di "mangia o sarai mangiato", In the market è una condanna alla famelica competitività della società in cui viviamo, alla fagocitazione indiscriminata di interi settori della nostra economia da parte della crisi globale che ha investito tutti i paesi del mondo, all'inerzia della nostra classe politica che continua a spremere le classi meno abbienti alla stregua di un frutto ormai rinsecchito. I riferimenti ai saggi cine-sociologici di George Romero sono sotto gli occhi di tutti, non mancano quelli a Hostel e Saw - L'enigmista, ai deliri tarantiniani, ai 'massacri' di
Tobe Hooper e ai grandissimi cult, da Duel a Thelma & Louise.
Il nuovo sogno italiano che incontra il vecchio sogno di cinema americano, il vecchio e il nuovo horror che confluiscono in versione pulp in un film tanto immaturo quanto coraggioso, visivamente di qualità e girato interamente nel nostro Paese, tra la Toscana, l'Umbria e le Marche, ma sprovvisto di una collocazione spazio-temporale riconoscibile, una mancanza che da una parte spiazza lo spettatore e dall'altra lo incuriosisce.

C'è da dire che la prima mezz'ora fa pensare al peggio, durante il lunghissimo prologo infatti il film è svogliato, mal recitato e impantanato in uno scambio di dialoghi al limite del parodistico, almeno fino al momento dell'entrata in scena dei due rapinatori e all'entrata nel market degli orrori, momento in cui le cose iniziano a movimentarsi e il film si rimette in carreggiata offrendo diversi momenti di tensione e di puro terrore.
Questo grazie all'entrata in gioco del macellaio pazzo, un laureato in antropologia con la fissa per internet, interpretato dall'attore aquilano Ottaviano Blitch, volto inquietante e grande presenza scenica, già visto in Shadow - L'ombra di Zampaglione e nel Rasputin di Louis Nero. Un personaggio del tutto fuori dagli schemi, incomprensibile, folle, spietato, che sovrasta le sue stupide vittime, dapprima impedendo loro di interagire, mettendo in luce tutta la loro inutilità, la loro fragilità psicologica e la loro pochezza morale, per poi trasformarle in carne da macello pronta per la vendita al dettaglio.

Cinico, allegorico e a tratti truculento, In the market è visivamente un prodotto di alta qualità, sia grazie all'uso dell'alta definizione sia all'aiuto del maestro Sergio Stivaletti che si è occupato degli effetti speciali regalando alcune sequenze davvero impressionanti. Entusiasmante anche la colonna sonora folk, confezionata per l'occasione dai GTO, gruppo musicale nato nel 1992 nella provincia perugina.
Un B-movie on the road farcito di riferimenti cinematografici e di personaggi bizzarri, un piatto unico che lascia in bocca tanti sapori forti, che non riesce a nascondere l'inesperienza del suo creatore ma che mette in evidenza un talento che nel prossimo futuro potrebbe regalare ai buongustai del cinema di genere qualche portata da veri gourmet.

Luciana Morelli

INTERVISTA A ELISA SENSI (di SIMONE DI GIAMPIETRO)

Qual è il tuo rapporto col genere cinematografico dell’horror?

Nella mia vita ho visto “per intero” solo 4 film horror : Alien, 28 Giorni dopo, L’esorcista e il silenzio degli innocenti, questo per dirti quanto il mio rapporto con il genere sia a dir poco conflittuale. Ho provato a guardare Shining, Hostel e The Ring ma non sono riuscita a stare con gli occhi aperti e sinceramente ho sempre interrotto il film perché anche solo “sentire” mi faceva star male. Sono una persona molto suscettibile, ricordo che dopo aver visto un po’ di The ring avevo paura di trovare un’amica putrefatta nell’armadio; ancora oggi quasi all’età di 23 anni non lascio mai penzolare dal letto un piede o un braccio.

È la prima volta che mi viene chiesto di analizzare il mio rapporto con il genere horror, e pensandoci posso dire che l’horror più soft (psicologico) quello che anziché mostrare l’orrore, lo racconta creando una tensione partorita dall’idea di poter assistere a qualcosa di orribile, mi scaturisce maggiormente quel senso di repulsione avversione che in poche parole si chiama paura.

Ma con In the Market è tutto diverso, ricordo la prima volta che l’ho visto: ero ad Ancona alla prima mondiale e durante le scene splatter la gente intorno a me si copriva gli occhi, cercava di non guardare, e chi guardava subiva quella sensazione di repulsione/attrazione; invece io per la prima volta nella mia vita osservavo attentamente ogni goccia di sangue che usciva, ogni lamento, ogni tiratura di nervo: analizzavo se il risultato era credibile, passo per passo ho assistito e partecipato alla creazione di quelle scene e sapendo come erano state create non mi creava nessun senso di orrore.

È paradossale come la mente possa essere influenzata in base alla propria esperienza.

Da attrice esordiente, cosa è stato per te In the market? La realizzazione di un sogno, un’aspettativa, un obiettivo che finalmente ha preso vita?

In the Market è stato ed è tutt’ora una grande esperienza: ho capito attraverso la realizzazione di quest’opera che il cinema è pura espressione della fantasia e molta molta fatica.

La realizzazione di un sogno, ma di un sogno vero: siamo partiti da un’idea e un foglio bianco, ed ora sono qui a rispondere con immenso piacere alla domanda di un ragazzo che si è interessato al progetto; quindi sicuramente posso dire che In the Market è un obiettivo che finalmente ha preso vita.

Da attrice esordiente In the Market mi ha insegnato molto, ho conosciuto modi di preparazione alla scena molto diversi tra loro, come quello di Ottaviano Blitch, Massimiliano Vado, Gloria Coco etc… O degli stessi compagni di jeep, ho capito che avevo bisogno di studiare molto e lavorare non solo sulla dizione e sull’espressione ma sul movimento corporeo. Dal film non si evince molto la difficoltà di non saper dove mettere le mani (il primo problema di un giovane e acerbo attore) e neanche di come camminare per esprimere lo stato d’animo del personaggio che uno interpreta, poiché la prima parte del film si svolge in automobile e nella seconda tra racconti di paura intorno ad una tavola imbandita (piena di cibo da poter manipolare) e poi torture subite da immobilizzati, il movimento è abbastanza limitato, ma il problema c’è. Per questo dopo il film ho deciso di studiare molto duramente per essere in grado di esprimere con tutto il corpo un qualsiasi pensiero di un qualsiasi personaggio, anche molto lontano dal mio carattere.

A te è toccato girare forse la scena più delicata del film. Il tuo personaggio, Nicole, si ritrova assicurato su un tavolo da contenzione, con tanto di legature in cellophan che inibiscono qualunque movimento. E’ stato facile per te recitare quella parte? Ti sei per un attimo immedesimata nella vittima provando terrore? In the market in fondo è tratto da una storia vera…

La tortura è stata una delle scene più lunghe e complicate che abbia mai girato, sono stata legata per 6 ore consecutive al tavolo del macello e il maestro Sergio Stivaletti ha creato gli effetti speciali direttamente sul posto: è stato un lavoro di maniacale precisione mentre la troupe pazientemente attendeva il ciak e la tensione saliva di ora in ora. Ero completamente bloccata mani e piedi, la bocca sigillata, la visuale oscurata dagli occhialini e a coprire l’udito delle grandi cuffie, la mia percezione si riduceva a quella della pelle; ammetto che quando Adam (Ottaviano Blitch) mi ha leccato una coscia i brividi di disgusto erano reali, e solo in quel momento mi sono immedesimata nella vittima provando terrore: ma subito dopo ero troppo concentrata a percepire quando si avvicinava a me per dare dei controscena interessanti, e tirare muscoli e nervi delle gambe e del collo per rendere al massimo il dolore fisico mentre venivo torturata per finta; e all’opposto non lamentarmi e non scuotermi quando la scena si sviluppava in continuità verso David (Marco Martini) il ragazzo torturato nella stessa location.

L’horror porta in superficie l’evidenza “della cosa terribile” oppure oggi come oggi, l’orrore finto (cinematografico) viene usato dai più per ripararsi dall’orrore vero (quello reale).

Siamo ogni giorno bombardati da notizie di massacri, di strani intrighi e macabre uccisioni, immagini di morti, mutilati, torturati, ecc… Forse proprio da quando la televisione ha iniziato a parlare e discutere di queste cose, il pubblico che va al cinema vuol vedere qualcosa di diverso: un horror più leggero, che sia di svago e non di riflessione, quindi più che ripararsi dall'horror vero penso che all'industria del cinema CONVIENE creare dei film carichi di effetti che colpiscano nel momento e che poi non lascino niente. Poiché il PUBBLICO (lobotomizzato dalla televisione) vuole non riflettere… Ma esser stupito comunque da qualcosa... Il famoso effetto speciale!

Invece sono anni in cui il cinema horror potrebbe rivelarci qualcosa di sconvolgente… Magari proprio analizzare e capire perché l’orrore affascina e viene realizzato sempre più di frequente nella vita vera. Forse proprio perché nel tempo con le opere di fantasia di molto registi horror pure l’ immaginazione dell’uomo medio si è aperta ancora di più. Comunque questa è solo una mia considerazione!

Parlami liberamente del progetto “Co-producers” col quale è stato finanziato e realizzato In the market…

Mi dispiace molto ma non so rispondere dettagliatamente a questa domanda, non sono io che mi occupo dell’amministrazione dei contratti, posso solo confermarti che il film è stato realizzato grazie a questo sistema, che dà una grande opportunità come a noi che siamo un giovane gruppo di cinefili di fare film e realizzare come nel nostro caso un sogno, insieme a persone che accettando questa tipologia di contratto credono nel progetto!

Simone di Giampietro

INTERVISTA A MARCO MARTINI (di SIMONE DI GIAMPIETRO)

Prendiamo il filone del torture-porn: solo violenza gratuita o anche la metafora della follia che può scoppiare in qualsiasi contesto e momento?

Il torture porn è un sottogenere horror che si lega magnificamente col genere splatter. Continua a riscuotere molto successo nelle sale cinematografiche per le caratteristiche che ha, ed anche perché, a mio avviso, le scene vengono portate sempre più allo stremo. Corpi nudi squartati, sadismo nel torturare le persone; scene portate al limite per un pubblico divenuto quasi sadico e masochista, perché la gente ha voglia di vedere, ha bisogno di quell’adrenalina, di provare emozioni forti. Anche nella vita quotidiana i telegiornali non fanno altro che bombardarci la testa con le notizie di omicidi, conviviamo inconsapevolmente con l’horror. Ormai si ha voglia di questo. L’horror, come tutti i generi cinematografici, ha avuto un’evoluzione e sicuramente ne avrà altre per star dietro alle esigenze del pubblico, stando attenti a non cadere nel banale e proponendo una storia sempre più adrenalinica e spettacolare. Posso dire, da parte mia, che sono uno degli sceneggiatori/attori/produttori del film Horror “In the Market”, che è molto difficile quando si scrive una sceneggiatura, creare una storia che abbia situazioni spinte ma non banali. Non volevamo per l’appunto regalare violenza. Ogni film si contraddistingue dalle proprie qualità e una delle nostre è che a differenza degli altri torture-porn come Hostel 2, Turistas, non si sia voluto regalare violenza, ma costruire qualcosa di più complesso, creare una filosofia di vita su un personaggio forte come Adam il macellaio, dove il suo progetto sfocia in una follia omicida; volevamo un horror reale, dove si uccide non per il gusto di uccidere, ma per qualcosa di più. Anche tutti i Saw hanno una filosofia di vita dietro alle uccisioni. Tu sprechi la tua vita e per riaverla devi sacrificarti a costo di morire. L’unico difetto è che, dopo Saw 2 fino all’ultimo Saw, è violenza gratuita, passa in secondo piano la filosofia, il “progetto” per cui devi morire e quindi, a parte la spettacolarità delle morti, non c’è più l’idea brillante per cui era stato partorito il film. Quindi credo che ormai il cinema horror dia più violenza gratuita e la gente, o per lo meno una gran parte di pubblico piace così com’è, anche se non credo che si possa andare avanti così, perché senza una logica si arriverebbe alla saturazione delle idee e si andrebbero a vedere film visti e rivisti.

Secondo te, ci sono frangenti in un film durante i quali “attore” e “personaggio” coincidono perfettamente?

Per quanto ci siano scuole che insegnino in svariati modi l’arte recitativa, credo che l’attore, per essere uno bravo nel suo mestiere, debba imparare a tirar fuori e gestire le proprie emozioni. Quando ha capito come si gestiscono deve solo giocare.

Se gioca, l’attore è padrone del personaggio e può farci quello che vuole; se giochi ti diverti e rendi il personaggio vivo. L’attore oltre a giocare deve essere anche ladro; deve, per costruire un personaggio, attingere, oltre alle sue esperienze di vita, alle altre persone; deve rubare con lo sguardo e farsi sua la personalità degli altri. Secondo me è scontato che ci siano frangenti in cui l’attore e personaggio siano la stessa persona perché, l’attore riflette al personaggio le sue esperienze, e quindi la sua base di uomo, il suo imprinting; poi le camuffa giocando e quindi creando e caratterizzando il personaggio. Conta molto anche l’esperienza perché ho notato, rivedendo “In the Market”, quante altre varianti avrei potuto usare per caratterizzare il personaggio. È stato per me più difficile interpretare la parte horror rispetto all’on the road perché nella prima parte dovevo interpretare me stesso, o comunque un ragazzo che parte per una vacanza, mentre nella parte horror è stato più difficile, perché devi entrare in una situazione mai provata, tenere il personaggio e non calare di concentrazione tra una pausa ed un’altra. È stato massacrante perché sono dovuto rimanere tutta la notte seduto e legato con le fascette ed è facile perdere la concentrazione. Anche Elisa è dovuta restare quasi tutta la notte legata, stesa in intimo sul tavolo. Però per amore del cinema e di questo mestiere non ci fai neanche caso ai sacrifici che si fanno.

Sei rimasto sorpreso dagli effetti speciali di Stivaletti ? Anche tu ne subisci qualcuno, nella seconda parte del film?

Durante le riprese del film “In the Market” ho conosciuto Sergio Stivaletti che mi ha apposto degli effetti speciali su di me. Devo dire che sono rimasto sorpreso, primo, per il suo modo di fare, sempre molto disponibile, attento, professionale nonostante si sia trovato davanti ad una produzione indipendente che non conosceva. Secondo sono rimasto colpito da come creava. Era bello da vedere come con oggetti improbabili riusciva a trasformare e lavorare. Ho avuto la fortuna nel film, di avere più effetti speciali addosso rispetto le altre ragazze come la mano che entra ed esce dal tritacarne, la pancia squartata dove escono le budella ed in più ho dovuto mangiare anche un boccone di coscia di Elisa Sensi alias “Nicole” nel film. Devo dire che era tenera, calda, ma un po’ dolce. La mano è stato l’effetto speciale un po’ più complesso perché ha dovuto chiudere delle dita per poi attaccarci sopra delle falangi di ossa e poi c’ha costruito sopra la carne dilaniata dal tritacarne e per chiudere in bellezza il sangue, tanto sangue. Mentre per la pancia e le budella è stato più facile perché si doveva sovrapporre una pancia squartata sul mio addome e inserirci dentro le budella tutte insanguinate, l’unico problema che si era creato era che si vedeva dalla telecamera un pezzo dell’imbracatura d’acciaio per quando mi appendevano e, per camuffarlo Sergio mi ci aveva sbattuto sopra un pezzo di carta tutto insanguinato. È molto bravo a trovare delle soluzioni immediate, semplici e che rendano bene nel film. Sono orgoglioso di aver collaborato con lui anche perché, sapendo che ha lavorato con uno dei più grandi registi del genere horror italiano, Dario Argento, ha portato valore al nostro film.

Se dovessi difendere il genere horror contro i suoi detrattori, quali argomenti useresti?

Credo che il genere horror non abbia bisogno di essere difeso, a parte quello italiano che sembra ormai sparito dalla circolazione, anche se ce ne sono tanti di film indipendenti o meno, prodotti e mai usciti, oppure espatriati per un pubblico estero. L’horror è anche un genere eccezionale perché anche se non dovesse andare benissimo al cinema comunque si riprende con il video noleggio. È un peccato che si manchi di patriottismo di fronte al cinema italiano che negli anni 50-60 ha fatto scuola al cinema estero. Ormai ci siamo limitati solo al cine-panettone, a qualche commedia, ma i film di genere, quelli belli rimangono sempre nascosti. Ce ne sono di registi bravi in Italia che fanno dei film horror di valore ma non si capisce come mai vengono sempre insabbiati. Io non sono un fanatico dell’horror ma credo che a chiunque tu possa chiedere quali siano i registi horror italiani la maggior parte ti dicono Argento, Bava, Deodato, Fulci; mancano le nuove leve che fanno fatica ad emergere oppure che sono conosciuti ma non hanno la stessa visibilità come Bianchini, Lombardi, … . mi dispiace quando si predilige il cinema americano rispetto al nostro perché sembra che noi non siamo capaci a fare niente. Se i capoccioni che pilotano tutto e decidono cosa farci vedere non iniziano a credere e ad azzardare su di noi, il cinema italiano non potrà mai crescere, noi stiamo solo facendo crescere gli altri. Purtroppo o si è appassionati di un genere e allora si cerca, grazie ad internet film di sconosciuti, che possono essere anche dei buoni prodotti, oppure si rimane inconsapevolmente con l’idea che in Italia non si fa niente.

Parlami liberamente del progetto “Co-producers” con il quale è stato finanziato In The Market.

Il “Co-producers” è un progetto serio, innovativo, che aiuta le piccole produzioni a lavorare, perché firmando il contratto in “co-producers” io presto la mia immagine, se sono un attore, oppure il mio servizio, se sono un elettricista o qualsiasi altra persona che lavora nel film, senza ricevere un compendio prestabilito; cioè, se vi sono degli incassi, vengono distribuiti in base a delle percentuali, alle persone che hanno lavorato nel cast del film. È un azzardo, che puoi fare con persone di cui ti puoi fidare, dove tutti credono nel progetto che si crea. Così è stato concepito In The Market che è stato finanziato maggiormente da noi e anche una piccola parte con l’aiuto di qualche sponsor. Grazie a questo tipo di contratto si sono gettate le basi per dare credibilità al cinema indipendente.

Simone di Giampietro